Se il 24 dicembre è uno di quei rari giorni dove la flemma mediterranea dei napoletani cede all’istinto dello shopping compulsivo, il 26 al contrario, finite le prime abbuffate, Napoli torna ad essere una città dove la socialità impera, complici anche il bel tempo, il clima mite e i negozi chiusi.
Si procede a passo lento, ci si ferma a chiacchierare volentieri. Ci si affretta spasmodicamente solo nel metro, specie se la campanella ha già trillato e per quel senso di sfida alle norme che ci caratterizza c’è sempre qualcuno che non demorde e si lancia disperato verso l’apertura che va per chiudesi, manco fosse l’ultima metro della storia a partire.
Inutile dirlo, Napoli può far arrabbiare per questo suo carattere poco ligio alle regole, ma questa vitalità mai doma è anche il suo punto di forza, una voglia di andare oltre che non si può vedere solo al negativo ma è anche il motivo di continui riscatti.
Io che ho deciso di migrare altrove non ho intenzione di praticare quell’antipatico sport del dare giudizi su un luogo di cui non si condivide più la quotidianità. Mi limito a osservare e ad annotare fattarielli curiosi, belli o brutti che siano.
Come le persone che a mezzanotte non riescono a tornarsene a casa perché una seconda fila di auto si è magicamente formata, e poiché piove il parcheggiatore abusivo ha pensato bene di dileguarsi.
O il motorino che evita di mettermi sotto nonostante il mio attraversamento sbadato, e si limita a fare una frenata dolce; a bordo padre, madre e due bimbi, rigorosamente senza casco. Altrove sarei stato preso in pieno o mi sarei beccato una raffica di insulti per non aver guardato da entrambi i lati prima di attraversare il vicariello, a Napoli finisce spesso con un sorriso di compiacenza, un venirsi incontro, un sapersi tutti un po’ in errore, umani dunque, senza bisogno di fare troppe distinzioni.
Giornate di sfogliatelle, mustacciuoli e roccocò. E gli struffoli di mammà, sempre deliziosi.
Giornate di saluti a parenti e amici, quelli di un tempo che resistono alla ruggine degli anni che passano, delle distanze che si allungano, del tempo che si accorcia. Bisognerebbe istituire durante l’anno un week end dedicato alla socialità e ai tempi andati, sarebbe un bel segnale di progresso.
Il Vesuvio nitido e il lungomare sgombro di auto, con le nuove piste ciclabili che si spera si affermino nell’utilizzo comune; per ora danno un segno tangibile di come una metropoli complessa come Napoli può cambiare, una sfida.
Una mostra sul viaggio deprecabile.
Passeggio ora in centro, per strade che un tempo mi appartenevano socialmente, in cui mi sentivo a casa; è un susseguirsi di manifesti di lotta misti a quelli artistici e culturali . Ma anche un pullulare di spazi occupati, il fermento si nota, l’indignazione è palese. Un tabaccaio, saputo che vivo in Basilicata, prima chiede conferma che è la zona dove hanno trovato le falde inquinate causa petrolio e via cantando, poi incita alla lotta e alla difesa del territorio.
E la locandina affissa su un negozio che recita “io pago chi non paga”, una campagna antiracket che non so se avrà la forza che ci mettono i ragazzi di addio pizzo a Palermo, ma almeno è un primo segnale anche a Napoli.
In serata un the caldo con gli amici a piazza Bellini, fra autoctoni che fanno le prove dei botti di capodanno e uno sguardo che fende l’aria, felino, da sotto un folto casco riccio.
“Era di maggio” nelle orecchie, musica popolare per le strade.
E poi la pioggia, a ovattare tutto. Ma il magma vulcanico è sempre in fermento.