Turismo nelle città d’arte e spazi pubblici

via ridola

E’ arrivato l’autunno e nelle strade di molte città d’arte  i gestori deii locali tolgono i tavoli, presi d’assalto d’estate da turisti e escursionisti.

Anche a me quando fa caldo piace potermi sedere ai tavolini esterni del locale prescelto, specie di sera; non so dirvi se sia una reale esigenza o una moda del periodo, fatto sta che spesso nelle mie scelte estive il fattore tavolino esterno conta. E non sono il solo, a giudicare dalla foga con cui alcuni esercenti della città dove vivo hanno protestato con l’assessore di turno invocando maggiori spazi dove potersi allargare, per soddisfare le richieste degli avventori.

 

Ma non son sicuro che la mia richiesta di comfort vada sempre appagata, specie se ciò rischia di ritorcersi contro la comunità locale, che in quel luogo ci vive tutto l’anno.

 

Notoriamente in tutta Italia il gestore di un locale può fare richiesta di spazi all’aperto più o meno adiacenti al proprio locale, pagare la corrispettiva tassa in base ai metri quadri che intende occupare, mettere i tavolini e poi se resta nei limiti per cui ha pagato bene, se no rischia di beccarsi una multa.

 

A me il tema delle sanzioni interessa sempre poco, sono i concetti a monte quelli su cui poso la mia attenzione. Uno dei problemi legati al turismo nelle città d’arte è legato al fattore regolamentazione.

 

Un tempo i comuni avevano maggiore capacità di gestire il proprio suolo pubblico, per tenere nel giusto conto le diverse esigenze. Il punto di partenza era , e ancora in teoria dovrebbe essere, che il suolo è pubblico, non c’è bisogno di aver studiato al liceo classico per avere un’idea anche se minimale di cosa significhi questa parola. E’ di tutti i cittadini.

 

Le istituzioni locali avrebbero in effetti il compito di salvaguardare gli interessi pubblici, cioè di tutti, mediando fra i diversi desiderata ma tenendo al centro quella magica parolina.

 

Che invece viene spesso dimenticata.

 

Ciò comporta che in assenza di una politica pubblica si entra nella società del far west, dove ha ragione chi sa urlare di più o riesce meglio a coalizzarsi.

 

Da più parti sento dire che l’Italia avrebbe bisogno di un nuovo umanesimo, premessa per una nuova rinascita. Idea affascinante, ma volendo restare con i piedi per terra mi limito a osservare che se non si tiene nel giusto conto il bene pubblico, compreso lo spazio, l’unico verbo che continuerà a farsi strada sarà quello del libero mercato.

 

Un tempo lo scambio economico era un fattore significativo all’interno di una società sana che lo bilanciava con il dare importanza anche ai valori relazionali. Oggi si ragiona solo in nome del dio denaro, e della legge della domanda e offerta per cui se io turista chiedo tavolini all’aperto, bisogna soddisfarmi, visto che io porto la sacra moneta con me. Lo stesso accade per motivi meno nobili, come le droghe o le prostitute, anche minorenni se il mercato lo richiede.

 

Per chi ha un senso dell’etica e promuove il turismo responsabile, è sempre bene anteporre ai desiderata dei turisti il benessere della comunità locale, che non passa solo per la soddisfazione del turista.

 

I commercianti chiedono di essere lasciati in pace perché loro fanno girare l’economia. I comuni sono senza grossi introiti quindi trovano utile capitalizzare qualsiasi occasione generata dallo sviluppo del turismo, come ad esempio la tassa del suolo pubblico per i locali. Il cittadino comune invece non conta più nulla, se non quando entra nelle vesti del cliente che spende soldi.

 

Tutto ciò è solo uno dei modi possibili di andare avanti, non l’unico.

 

Se un Comune avesse la doverosa capacità di non considerare le problematiche solo da un punto di vista economico, sicuramente riuscirebbe a tener testa agli individualismi di turno, facendo scendere tutti a più miti consigli.

 

Ad esempio nel corso principale di Perugia i tavolini dei numerosi locali sono posizionati ordinati nel centro della strada per dare a tutti il giusto spazio senza prevaricare nessuno.

 

Ma in altre città ognuno prende quanto spazio vuole, e più ne ha più ne pretende, indipendentemente dalla strada o piazza dove si trova, da quanto spazio avrebbe all’interno.

 

Infatti un conto è piazzare due tavolini per attirare l’attenzione e poi puntare sulla qualità di ciò che offro, magari all’interno e con un po’ di accortezza alla ventilazione; altro è basare tutta la propria strategia commerciale sul numero di tavolini esterni posizionabili.

 

E in assenza di regolamenti comunali che limitino per tutti i locali la metratura esterna occupabile, il suolo pubblico delle vie e delle piazze delle città d’arte sarà destinato a essere invaso da tavolini di tutte le risme, in nome e per conto del pensiero unico neoliberista. Che però unico non è.

 

2 responses to this post.

  1. Posted by Livia on 27 novembre 2013 at 13:42

    Beh, difficile dire chi ha ragione e chi torto… Se i commercianti che in un periodo come questo, di crisi, cercano di fare di tutto pur di aumentare i loro introiti, o le comunità locali che invece vorrebbero solo vivere tranquillamente il loro territorio. Come spesso accade la ragione è, secondo me, nel mezzo e dovrebbe essere mediata dagli enti che però spesso fanno solo ciò che a loro conviene, lavandosene le mani. Come dice Pasquale, ci vorrebbe un maggior sentimento di condivisione, di societing.

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  2. Posted by Pasquale Aversano on 26 novembre 2013 at 14:51

    “[…]si entra nella società del far west, dove ha ragione chi sa urlare di più o riesce meglio a coalizzarsi.”
    Una frase vera, che condivido e che, purtroppo, nasce da un mancato sentimento di condivisione estesa, di societing.
    Le comunità locali dovrebbero saper utilizzare il proprio suolo, condividendolo e sfruttandone il potenziale in modo tale da far guadagnare valore tanto alla propria attività, quanto a quella della stessa città.

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